“Memorie sinalunghesi” - Teatro in Piazza. “Ghino di Tacco”

Poche immagini per ricordare una manifestazione che coinvolse molti sinalunghesi entusiasti.
Le rappresentazioni si tennero sul sacrato della Collegiata nel 1995.

Di Ghino di Tacco della Fratta si racconta nel Decameron di Giovanni Boccacio.

Il Decameron è una raccolta di cento novelle raccontate nell'arco di dieci giornate, da cui il titolo all'opera. Tre ragazzi (Filostrato, Dioneo, Panfilo) e sette ragazze (Elisa, Emilia, Fiammetta, Filomena, Lauretta, Neifile, Pampinea), nel 1348 lasciano Firenze per sfuggire alla peste e si rifugiano in campagna, dove passano il tempo cantando ballando e inventando novelle, una al giorno. La seconda novella della decima giornata, racconta di Ghino di Tacco. 


Giornata X

Ancora erano vermiglie alcune nuvolette ad occidente, mentre quelle ad oriente erano diventate splendenti, simili all’oro per i raggi solari che, avvicinandosi, le ferivano, quando Panfilo, svegliatosi, fece chiamare le donne e i suoi compagni.
Riuniti tutti, decise con loro dove potessero andare per divertirsi. Poi, accompagnato da Filomena e da Fiammetta, si avviò, seguito da tutti gli altri.
Conversando piacevolmente del loro futuro, passeggiarono a lungo. Fecero un ampio giro, e, quando il sole cominciò a riscaldare troppo, ritornarono al palazzo. Qui si disposero intorno alla fontana e chi volle bevve un po’, dopo che erano stati sciacquati i bicchieri.
Poi, tra le piacevoli ombre del giardino, andarono scherzando fino all’ora di pranzo. Dopo aver mangiato e dormito, come solevano fare, si riunirono dove piacque al re, il quale comandò a Neifile di raccontare la prima novella della giornata. 


Giornata X. Novella nº 2

Era già stata lodata la magnificenza che il re Alfonso aveva dimostrata nei confronti del cavaliere fiorentino, quando il re ordinò ad Elisa di continuare. Elisa subito obbedì, dicendo che sicuramente il re Alfonso era stato degno di lode, avendo usato la sua magnificenza nei confronti del cavaliere.Ella, dal canto suo, voleva raccontare di un religioso che aveva usato una ammirevole magnificenza verso una persona che se l’avesse trattata come un nemico, nessuno l’avrebbe potuto biasimare. Sicuramente la magnificenza del re era stata virtù, quella del religioso miracolo, perché si sapeva bene che i chierici erano più avari delle donne, nemici di ogni liberalità. E, sebbene ogni uomo desiderava vendetta delle offese ricevute, i religiosi, come si poteva vedere, benché predicassero la pazienza e il perdono delle offese, più focosamente degli altri si lasciavano andare ad essa. Nella novella che avrebbe narrato, avrebbero potuto conoscere la magnificenza del religioso.

Ghino di Tacco, molto famoso per la sua forza e per le sue ruberie, fu nemico dei conti di Santafiora, cacciato da Siena, fece ribellare il castello di Radicofani alla Chiesa di Roma. Abitando lì, faceva derubare dai suoi masnadieri chiunque passava da quelle parti.

Mentre era papa Bonifacio VIII, giunse a Roma, alla corte papale, l’abate di Cluny, che era ritenuto uno dei più ricchi prelati del mondo. Durante il soggiorno romano si ammalò di stomaco. Dai medici gli fu consigliato di andare ai bagni di Siena, dove sarebbe sicuramente guarito. Il Papa gli diede il permesso ed egli si mise in cammino, con un gran seguito di masserie, di muli da soma, di cavalli e di servitori, senza tener in conto le ruberie di Ghino.

Ghino di Tacco, avuta notizia di quel viaggio, preparò l’agguato e, senza che gli sfuggisse neppure un servitorello, circondò l’abate con tutto il suo seguito. Fatto ciò, mandò dal prelato il più istruito dei suoi uomini, che lo invitò cortesemente ad andare con lui al castello di Ghino.

L’abate, udendo ciò, infuriato rispose che non voleva avere niente a che fare con quelli come Ghino, ma voleva andare avanti e voleva vedere chi glielo poteva impedire. L’ambasciatore umilmente gli disse che si trovava in un luogo in cui si temeva soltanto la forza di Dio e le scomuniche erano scomunicate. 

Mentre egli parlava i masnadieri avevano circondato tutto il luogo.

L’abate, catturato con tutti i suoi, si avviò verso il castello.

Come Ghino aveva ordinato, fu messo, tutto solo, in una cameretta del palazzo, assai buia e scomoda, mentre tutti gli altri uomini del suo seguito furono sistemati decorosamente, secondo il rango. I cavalli e tutte le masserizie furono messi al sicuro, senza che fosse toccato nulla.

Fatto ciò, Ghino si recò dall’abate e gli disse:

«Messer Ghino, di cui siete ospiti, mi manda a pregarvi di dirgli dove andavate e per quale ragione».

L’abate che, saggiamente, aveva già deposta la superbia, gli disse dove andava e perché.

Ghino, dopo aver ascoltato, si allontanò e pensò di volerlo guarire senza i bagni di Siena.

Fece accendere nella cameretta un gran fuoco e non tornò da lui fino alla mattina seguente. Allora gli portò, in una tovaglia bianchissima, due fette di pane arrostito e un grosso bicchiere di vernaccia di Corniglia, quella dell’abate stesso. Poi disse all’abate 

«Messere, quando Ghino era più giovane studiò medicina e dice che non aveva trovato nessuna cura per il mal di stomaco migliore di quella che vi farà, della quale queste cose sono l’inizio; perciò prendetele e state tranquillo».

Il religioso, che aveva più fame che voglia di discutere, anche se malvolentieri, mangiò il pane e bevve la vernaccia. Poi disse molte altre cose e fece molte domande. Soprattutto chiese di poter vedere Ghino, il quale, celando la sua identità, lasciò cadere alcune domande perché inutili, ad alcune rispose e disse che Ghino, appena possibile, sarebbe andato a visitarlo. Detto ciò partì e ritornò il giorno dopo con la stessa quantità di pane arrostito e di vernaccia. E così tenne l’abate per molti giorni, finché non si accorse che costui aveva mangiato fave secche, messe lì apposta e di nascosto. Gli disse, poi, che Ghino voleva sapere come stava con lo stomaco.

L’abate rispose che gli sembrava di star bene, eccetto il fatto che era prigioniero. Non desiderava altro che di mangiare, tanto bene l’avevano guarito le sue cure.

Ghino, dunque, fece sistemare, per lui e i suoi servitori, una bella stanza con le stesse masserie che aveva portato e fece apparecchiare un gran banchetto, al quale fu invitato a partecipare tutto il seguito del religioso.

Il mattino seguente si recò da lui e gli disse 

«Messere, poiché vi sentite bene, è ora di uscire dall’infermeria».

Poi lo prese per mano e lo condusse nella stanza apparecchiata, lasciandolo con i suoi. L’abate si confortò e raccontò ai suoi quale fosse stata la sua vita nel castello, mentre, al contrario, tutti dissero che erano stati trattati splendidamente.

Venuta l’ora di mangiare, all’abate e a tutti gli altri furono serviti buone vivande e ottimi vini, senza che Ghino si facesse ancora riconoscere.

Dopo un certo tempo Ghino fece portare nella sala molti bagagli e nel cortile sotto la sala fece sistemare tutti i cavalli, anche il più misero ronzino Poi andò dall’abate e gli chiese se si sentiva bene e credeva di poter cavalcare. L’altro rispose che era forte e del tutto guarito dal mal di stomaco e sarebbe stato meglio se fosse stato fuori delle mani di Ghino.

Allora Ghino lo fece accostare ad una finestra, da cui poteva vedere tutti i suoi cavalli, e disse 

«Messer abate, dovete sapere che l’essere un nobile uomo, l’essere stato cacciato dalla propria casa, l’essere povero ed avere molti nemici potenti, hanno costretto Ghino di Tacco, che sono io, ad essere brigante e nemico della Corte di Roma, per difendere la propria vita e la propria nobiltà. Poiché mi sembrate un signore valente e poiché vi ho guarito dal mal di stomaco, non voglio trattarvi come farei con un altro, al quale prenderei quello che volessi. Scegliete voi, conoscendo le mie necessità, lasciate ciò che volete. Tutte le vostre cose sono davanti a voi e i vostri cavalli sono nella corte, come potete vedere. Perciò prendete, come vi piace, e la parte e il tutto. D’ora in poi potete andare o rimanere, come vi piace».

L’abate si meravigliò che un ladro di strada parlasse con parole così nobili e gli piacque molto. Subito l’ira e lo sdegno si tramutarono in benevolenza e, divenuto di tutto cuore amico di Ghino, corse ad abbracciarlo, dicendo 

«Giuro, in nome di Dio, che, per guadagnare l’amicizia di un uomo come ormai ritengo che tu sia ,sopporterei di ricevere molte maggiori ingiurie rispetto a quelle che mi è sembrato che tu mi abbia fatto. Sia maledetta la fortuna che ti costringe ad un mestiere così dannoso».

Poi, prese soltanto pochissime cose necessarie, gli lasciò tutte le altre e se ne tornò a Roma.

Il Papa aveva saputo della cattura dell’abate e se ne era rammaricato molto. Quando lo vide gli chiese se i bagni gli avevano giovato. L’abate, sorridendo, gli rispose 

«Santo padre, più vicino dei bagni, trovai un valente medico, che mi ha guarito ottimamente”. E gli raccontò il modo, di cui il Papa rise».

Continuando a parlare, l’abate, spinto dalla magnificenza del suo animo, chiese una grazia. Il Papa, credendo che volesse chieder altro, generosamente si offrì di fare ciò che gli veniva chiesto.

L’abate allora disse 

«Santo Padre, io intendo domandarvi che voi concediate la vostra grazia a Ghino di Tacco, mio medico. Di quanti uomini valorosi ho conosciuto, e ne ho conosciuti tanti, egli è certamente uno dei migliori.Il male che egli fa ritengo che sia più un peccato della fortuna che suo. Se mutate la fortuna dandogli qualche cosa, grazie alla quale possa vivere secondo il suo stato, non dubito che, in poco tempo, egli sembrerà a voi, quello che sembra a me».

Il Papa, udendo ciò, essendo di animo grande e amante degli uomini valorosi, disse che l’avrebbe fatto, se era un uomo di tanto valore. Invitò ,pertanto, l’abate a farlo andare di lui, senza pericolo. 

Ghino, dunque, si recò a corte sicuro, come volle il suo protettore. Quando fu al cospetto del Papa, il Santo Padre apprezzò il suo valore, si riconciliò con lui e gli donò la grande prioria dell’ordine degli Spedalieri, di cui l’aveva nominato cavaliere.

Fu amico e servitore della Santa Chiesa e amico dell’abate di Cluny finché visse.


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Tornato a La Fratta, le cronache locali raccontano che rimase ucciso nella piazza del Cassero di Sinalunga nel tentativo di mettere pace tra due litiganti.

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